Crema News - Crema -  Personaggi e storie Il cavadenti

Crema, 07 maggio 2024

(Bernardo Zanini)

La Bestia Rebula.

A San Bernardino fuori dalle mura, la frazione chiamata dei Raanéi, dette i natali a uno dei più grandi avventurieri cremaschi. Si chiamava Francesco Riboli ed era nato il 12 novembre del 1834, dai nobili Cristoforo e Teresa. I suoi paesani raccontano che era un personaggio che incuteva paura, e solo i suoi rari amici d’avventura osavano avvicinarlo, bastava un’occhiata non gradita per fargli sguainare la spada. Era un anticlericale sfegatato e fece fuggire a tutta birra molte volte il parroco che osava contraddirlo. I giornali dell’epoca lo descrivono come uno spadaccino e un tiratore di pistola formidabile e imbattibile, perché dai duelli ne usciva sempre vittorioso. In uno dei duelli infilzava con la sciabola il duca Cesarini Sforza e in un altro con la pistola centrava e trapassava con un solo colpo il conte di Salasco. Era sempre in giro per il mondo in cerca di avventure e ogni tanto faceva ritorno a casa dalla moglie, Giuseppina Bragidi nobile comasca. Nella spedizione dei Mille partiva con Garibaldi e partecipò anche alla seconda guerra d’indipendenza come militare di truppa e nel 1866 combatteva con il grado di sergente. Invecchiando Francesco sentì il bisogno di fermarsi a San Bernardino, dove intraprese l’attività di agricoltore e per non far arrugginire la sua sciabola si racconta che la usava per tagliare il maggengo. La sua sepoltura è in un sarcofago nel cimitero di San Bernardino e ancora oggi viene ricordato dai suoi paesani come la Bestia Rebula.


I medegòt e i dottori

Negli anni 20 dopo la prima guerra mondiale girava per le sagre e fiere di Crema, l’assaggiatore di pipì, era un’omone alto e magro, vestiva una palandrana bianca e aveva un cappello a cilindro, la gente gli portava la propria urina in un vasetto, lui la assaggiava e in base al colore e al sapore diagnostica la malattia e quello che si doveva fare per stare bene. Le persone che ho intervistato non ricordano il nome e dicevano che veniva da un paese vicino a Milano e sembra sia deceduto a tarda età. Nelle campagne del cremasco per via dell’alimentazione piuttosto frugale, a base da pùlenta con l’ole da linusa, con i fasòi menat, al strachì sburinat ecc, accompagnate poi dal pisarelo, un vino allungato con l’acqua del fosso, molte persone i ghia la malatia dal trumbèt, detta anche la trumbetera, cioè i scuresaa a tradiment. Allora la gente si rivolgeva ai medegòt che segnavano i vermi, per le botte e contusioni, c’era un impiastro con la sugna dal roi e per la malattia del trombetto, gli facevano bere il vino rosso col profumo per mitigare almeno le puzze. Ma la cosa più incredibile era che riuscivano a guarire con uno strano rimedio. I malcapitati pazienti dovevano andare sul greto del fiume Serio a cercare 5 o 8 sassolini piccoli e piatti, impannarli con l’uovo e la farina e poi dovevano mangiarli al mattino a digiuno con un bella caraffa di vino rosso. Nell’ottanta per cento dei casi, guarivano dopo una bella scarica sòla bùsa dal rùt, nèle casine e nei pais da campagna i più fortunati avevano un gabinetto in comune an funt a l’era e ghera mia le tùrche da ghisa smaltade ma ghera le tùrche da maiolica. Dalle testimonianza raccolte negli anni 80, na òlta an campagna non c’era l’idraulico, ghera apena i magnà che facevano un po' di tutto, dallo stagnino ad aggiustare le pentule e le caldere da ram e capitava a periodi che iera tòi ciarit, dovevano cambiare di corsa in un paese 5 o 7 tùrche da maiolica perché iera crepade, poi con l’avvento delle turche di ghisa smaltate la cosa è andata a posto. 

Nel 1600 un medico veneziano che operava a Crema curava i suoi ammalati colpiti dalla malattia del trombetto con dei clisteri col fumo di tabacco profumato, non oso pensare e immaginare che risultati potesse avere questa cura, perché dal manoscritto seicentesco di proprietà privata, questo dottore non ha scritto i risultati ossia le guarigioni.

Negli anni 20 dopo la febbre spagnola che aveva mietuto più vittime della guerra, chi era sopravissuto aveva degli strascichi che si manifestavano con uno stato di debolezza generale. Mia nonna Cumina per uscire da questo stato si era rivolta al dottor Conca a cui faceva da portinaia. Il dottore gli aveva prescritto una cura da fare a mesi alterni, doveva prendere al mattino a digiuno un ostia con un cucchiaino raso di limatura di ferro finissima e inghiottirla con un bicchierotto di Ferrochina Bisleri. Le ostie le facevano le suore Canossiane a mano con lo stampino e la limatura di ferro finissima era andata dal fabbro a farsela fare, risultato: dopo circa 7 mesi è guarita.

 

Il cavadenti

In piazza Duomo fino alle soglie del 1900, c’era un cavadenti e l’estrazione era indolore. Chi doveva farsi strappare qualche dente, veniva fatto accomodare su una comoda poltrona e nel momento che gli veniva strappato il dente, dietro di lui c’era un suonatore di tamburo, uno con i piatti e una con la tromba. Con quel frastuono infernale il paziente veniva stordito e l’estrazione sembrava indolore.[1]

 

L’ingegner Dal Piave

A metà degli anni venti in Italia c’era poco lavoro e la gente campava come poteva, un anno apparvero su i giornali locali degli annunci dove l’Ingegner dal Piave prometteva lavoro, vitto, alloggio e paga a chi ne aveva bisogno, dovevano andare nelle zone del fronte a rimuovere le macerie e ha ricostruire i paesi. Sarebbero passati degli incaricati nelle trattorie dei paesi e città a fare l’iscrizione che costava poche lire e il giorno prefissato arrivava in stazione un treno speciale a caricarli, dovevano presentarsi alla stazione con zaino e badile. In quegli anni mio nonno Cechì aveva avviato una fabbrica di lisciva in via Quade 2 a Castelnuovo. Una mattina col carro e il cavallo si recò alla stazione di Crema per scaricare del materiale che gli era stato spedito e vi trovò un centinaio di persone con zaino, coperte sulle spalle e un badile in mano. Mio nonno che era veneto, scaricò il materiale, scosse la testa incredulo e si avviò alla sua fabbrica. Gli astanti alla stazione col badile in mano aspettarono fino a sera il treno speciale dell’ingegner dal Piave che non arrivò mai e gli incaricati delle iscrizioni, sparirono come erano arrivati, nel nulla.

 

I falsari cremaschi

Alla vigilia della seconda guerra mondiale, una grande povertà affliggeva la maggior parte della popolazione e c’era una penuria di viveri e di beni di prima necessità. Questa situazione portò quattro cremaschi a intraprendere un’attività in proprio in un giardino della via Verdi, dove crearono un laboratorio per battere moneta. Si procurarono i punzoni e cominciarono a coniare gli Aquilini, monete d’argento da 5 e 10 lire. Fatto il denaro, cominciarono a smerciarlo mandando dei ragazzi a fare delle piccole spese in negozi lontani dalla città e quando ritornavano ai ragazzi davano la mancia e il resto se lo dividevano. L’impresa non durò a lungo, perché i commercianti si accorsero presto dei soldi falsi e allora allertarono le forze dell’ordine. Un bel giorno la polizia pizzicò un ragazzo mentre faceva la spesa da un fruttivendolo e stava pagando con un’aquilina falsa. Portato in caserma e messo alle strette, il ragazzo confessava facendo i nomi e gli indirizzi dei falsari, che avendo avuto un presentimento, si disfarono delle restanti monete e dei punzoni gettandoli nel Cresmiero in piena. Ma le autorità del tempo non apprezzarono lo spirito creativo e imprenditoriale dei falsari cremaschi e i’à metìt an galera.[2]


(continua; per leggere la prima parte clicca qui)


[1] Mario Perolini, Testimonianze storiche della piazza del Duomo, 1983 pag.124

[2] Mario Gnesi, op.cit. nota 3