Dal territorio, 17 gennaio 2025
(Annalisa Andreini) La polenta: un grande classico dei cremaschi.
Da sempre l’alimento giornaliero più diffuso per il pranzo del mezzogiorno. Acqua, sale e farina di mais cotti nello “stignàt”, il classico paiolo appeso sul fuoco del camino di tante cascine. La quantità preparata era sempre molto abbondante, come raccontano le signore che abitano nella campagna cremasca, perché serviva anche il giorno dopo con diversi aggiustamenti e modifiche, ottimo esempio di riutilizzo sulla tavola.
Una pietanza quindi dalle mille risorse e molto versatile in cucina, come semplice contorno e accompagnamento alle carni (coniglio), ai funghi o ai pesci (merluzzo) e quindi come piatto unico e... anche come dolce.
La polenta è anche simbolo di casa, di tepore familiare e di convivialità, perché si divide fra i commensali.
Appena scodellata sul tagliere in legno, calda e fumante, la polenta veniva tagliata col “refursì”, una speciale cordicella.
Nel cremasco veniva preparata esclusivamente con la farina di mais tipica del territorio. Il mais, secondo le fonti storiche, era apparso nell’Italia settentrionale intorno al 1540, anche se in un documento, una lettera per il Granduca di Toscana del 1556, il nobile cremonese Giovanni Lamo offriva una partita di semi di mais proprio per poter cominciare la coltivazione nei territori governati dai Medici.
Si presume quindi che questo cereale fosse già diffuso nel territorio cremasco nel Cinquecento, conosciuto per lo più da botanici. Era coltivato solo negli orti dei nobili, come arbusto giunto dal Nuovo Mondo grazie a Cristoforo Colombo, poi si è diffuso anche tra gli strati del popolo. All’inizio era utilizzato come foraggio, poi fu proprio Lamo a consigliarlo in cucina per preparare la polenta.
Del resto l’uso delle farine di granoturco per la polenta si rivelò l’impiego più efficace per i contadini e piano piano il mais ha sostituito il miglio nel preparare la polenta, anche perché il pane realizzato con miglio, sorgo e il mais non aveva mai avuto un grande successo.
Nel nostro territorio quindi viene introdotto come sostituto del miglio e del sorgo, a cui somigliava molto per gli steli, per la predilezione dei luoghi umidi e per le tecniche di semina e raccolta.
La fame durante la crisi del Settecento, vista l’alta resa del mais, annullò il consumo dei cereali tradizionali e il mais, insieme alla patata, fu una salvezza per molti contadini.
Negli ultimi anni si è sviluppato molto anche da noi il consumo del famoso mais rostrato rosso di Rovetta, una varietà unica di mais con un seme piccolo e vitreo e la spiga allungata, chicchi rossastri-arancioni e il caratteristico rostro.
Fu Giovanni Marinoni, rovettese, classe 1935, a svilupparne la selezione, che ancora oggi viene sviluppata portando avanti il sapere delle donne di un tempo e che dal 2011 è diventata una fortunata Denominazione Comunale.
Si sono diffuse anche la polenta di farina bianca, tipica veneziana (da abbinare al pesce) e la polenta di grano saraceno.
Qualche curiosità sugli antichi utilizzi della polenta nel cremasco?
La polenta cotta e lasciata molle veniva messa nel latte freddo per realizzare la cosiddetta “pulentina col làt”.
Per la cucina del recupero c’era la “pulenta pastisada”, fritta con le cipolle o con i ciccioli del maiale oppure “brüstülida” direttamente sulla brace del camino e accompagnata alle fette di lardo oppure “rüstida” fritta nello strutto e unita al formaggio grattugiato.
Spesso, il giorno dopo la cottura, quando la polenta fredda poteva essere tagliata a fette, veniva accompagnata a spicchi di mela fritti nell’olio e spolverata di zucchero. In mancanza della mela poteva bastare solo la polenta cosparsa di zucchero per la colazione o la merenda dei bambini.