Crema News - Ricordo del partigiano

Castelleone, 09 novembre 2020


A tre settimane dalla morte, il ricordo di Gian Carlo Corada



Elia Ruggeri partigiano e la Resistenza sull'Appennino


E' scomparso il 18 ottobre a Crema, dove risiedeva da tanti anni, Elia Ruggeri. Fu maestro elementare, dirigente scolastico, ispettore, Sindaco di Castelleone, politico democratico-cristiano, presidente del centro culturale S. Agostino, pittore ed altro ancora. In molte di queste funzioni già è stato ben ricordato. Io vorrei parlare di lui per quella esperienza che visse da giovanissimo, a diciotto anni appena compiuti, e che condizionò, lui stesso lo diceva, le scelte successive: l'esperienza da partigiano. Era l'ultimo ancora in vita del numeroso gruppo di giovani castelleonesi e cremonesi partigiani sulle colline del Piacentino ed ho avuto il piacere di sentirlo tante volte rievocare quei tempi con mio padre (cui era assai legato, tanto da scrivere su di lui un libro, nel 2007). La vita da partigiano di Elia Ruggeri ha una data d'inizio precisa: il 18 giugno 1944, quando, in bicicletta, con altri, giunge in Val Tidone. A Castelleone agivano da “reclutatori” per i partigiani, il tenente Piero Marchesi, Ernesto Stellari ed un cugino di Elia, Giovanni Ruggeri. Costoro accompagnavano in montagna, a piccoli gruppi, i giovani che facevano quella coraggiosa scelta. Elia proveniva da famiglia di orgogliosa fede migliolina. La presenza migliolina nella Resistenza castelleonese fu assolutamente rilevante e Miglioli fu sempre legatissimo a Castelleone, di cui fu vicesindaco ed assessore. Vittorio Ruggeri (zio di Elia e papà di Giovanni, di cui parleremo) fu un illustre esponente del movimento migliolino. Il giovane Elia si formò, dunque, in quell'ambiente, fra l'Oratorio e la politica clandestina, ove si viveva un vivace cattolicesimo democratico e sociale. Gli studi magistrali non fecero che rinforzare le sue convinzioni. Quando venne il momento della scelta pertanto non ebbe dubbi: fra i “ribelli per amore”, fra coloro che volevano per l'Italia un futuro di pace e libertà e coloro che sostenevano le mostruosità del Nazifascismo, scelse i primi. E così il 18 giugno del 1944 il giovane Elia se ne andò in montagna, su una sgangherata bicicletta (che curiosamente recuperò dopo la Liberazione!). La prima tappa fu un'osteria sopra Pianello chiamata “La Colombina”, dove dormirono nella stalla, insieme agli animali. Il giorno dopo salirono ad un cascinale tra la Val Tidone e la Val Trebbia, chiamato “La Senese”, che per un certo periodo diede il nome ad un raggruppamento partigiano, formato all'inizio da ex carabinieri e militari. Il raggruppamento “La Senese” divenne poi la Divisione “Giustizia e Libertà” ed infine la “I Divisione Piacenza”, che ebbe l'onore di liberare Piacenza il 28 aprile del 1945. Il raggruppamento di ribelli, all'inizio composto da circa centocinquanta elementi, alla fine venne a contare quasi cinquemila partigiani e fu attivo nell'intero territorio delle valli Tidone e Trebbia ed oltre. A comandarli era Fausto Cossu, un sardo ufficiale dei carabinieri (e dopo la guerra avvocato), bella e complessa figura di comandante partigiano. Nel gennaio del 1944 Fausto Cossu (1914-2005), che nei primi anni di guerra aveva maturato sentimenti antitedeschi ed antifascisti, era fuggito da un campo di concentramento tedesco ed era giunto in Val Luretta. Occorre tener conto che la Repubblica di Salò aveva sciolto l'Arma dei carabinieri e ne aveva incorporato i membri, insieme alla Milizia fascista, nella Guardia Nazionale Repubblicana. Compito principale del nuovo Corpo divenne ben presto la ricerca e l'arruolamento forzato dei renitenti alla leva. Molti carabinieri (o ex-carabinieri a questo punto) accettarono di malavoglia la soppressione del Corpo, la fusione ed i nuovi compiti. Sappiamo che spesso dalle varie Stazioni locali giungevano avvertimenti alle famiglie, in modo che i ricercati potessero nascondersi. In altri casi vi furono scontri con la popolazione (noto quello di Vidiano dove due militi della Guardia nazionale ex-carabinieri vennero uccisi ed altri feriti in uno scontro con valligiani armati di fucili da caccia). Nelle Caserme sempre più persone si rendevano conto che rischiavano di essere stritolate fra la funzione repressiva assegnata loro dalle autorità fasciste e la resistenza armata popolare che andava formandosi. Fausto Cossu colse appieno l'opportunità che la situazione offriva alla lotta antifascista. Dal luogo (la Senese, appunto) in cui, con pochi compagni, si era rifugiato, prese contatti con le Stazioni dell' Arma della zona, soprattutto quelle della Val Tidone e della Val Trebbia, e convinse molti a disertare dalla Repubblica di Salò ed unirsi a lui. Raccolse così un buon gruppo di sottufficiali e carabinieri. Male armati ma ben organizzati, già a fine gennaio del 1944 riuscirono a respingere un attacco nazifascista. Costituirono la “Compagnia Carabinieri Patrioti”, una formazione militare che si distingueva per le caratteristiche militari dell'addestramento e della disciplina. La Compagnia compì coraggiose azioni di sabotaggio e decisi colpi di mano contro i presidi fascisti delle Valli. Accolse molti giovani, renitenti alla leva o soldati sbandati, come i nostri concittadini, e divenne ben presto Divisione, articolata su cinque Brigate ed alcuni reparti autonomi. Circa centocinquanta giovani cremonesi fecero i partigiani sull'Appennino! Di loro, molti moriranno o finiranno in campi di concentramento. Nell' agosto del '44 la Divisione di Cossu assume, già lo dicevamo, il nome di Divisione “Giustizia e Libertà” e come tale compie, nei mesi seguenti, alcune delle più ardite azioni partigiane, lungo la via Emilia ed in città. Alla fine del 1944 i nazisti organizzano, con la collaborazione di reparti fascisti italiani, uno dei più violenti rastrellamenti della guerra, pagato a caro prezzo dalla popolazione civile, quello chiamato dei “mongoli” (in realtà Mongoli non erano ma soldati della 162à Divisione di fanteria “Turkmenistan”, composta prevalentemente da armeni, azeri, georgiani, turkmeni, reclutati fra i prigionieri di guerra ed i disertori dell'Armata Rossa ma inquadrati nell'esercito tedesco e comandati da ufficiali tedeschi). Le perdite fra i partigiani furono notevoli, ma la Divisione combattè con coraggio, cremonesi in prima fila, si ricostituì, crebbe fino a raggiungere migliaia di componenti, si trasformò nella ancor più inclusiva Divisione “Piacenza”, proseguì la lotta e pervenne alla liberazione del capoluogo. Cossu venne nominato Questore di Piacenza (per poco tempo: poi fu rimpiazzato, come ovunque, da un funzionario). Venne congedato dall'Arma con il grado di maggiore ed ha poi svolto la professione di avvocato. Nel 1999 il Comune di Piacenza gli ha assegnato una medaglia d'oro di benemerenza.

Quando arrivò Elia, ben prima di tutto ciò, i partigiani presenti erano ancora pochi, ma ogni giorno vi erano nuovi arrivi. Qualche fucile, poche munizioni: eppure il battesimo del fuoco avvenne subito, contro un gruppo di fascisti asseragliato nella caserma di Travo. Quasi subito si costituì il “Distaccamento Castelleone”, formato da una trentina di persone, quasi tutti castelleonesi (ma qualcuno anche di Casalbuttano, Soresina e Cremona). Il comando venne affidato al tenente Marchesi. Elia, fra i più giovani, ne fu l' alfiere. Il Distaccamento prese parte ad azioni memorabili, come l'entrata nell'arsenale di Piacenza a far bottino di armi e munizioni. Contrariamente a quanto si può pensare, non vi erano grandi distinzioni politiche alla base (ai vertici no!) e quasi nessuno dei patigiani si definiva politicamente.

Mio padre, giunto pochi giorni dopo Elia, con lo stesso sistema ed accompagnato dalle stesse persone, venne distaccato al Comando, con l'incarico di redazione e stampa, con altri, sotto la direzione del commissario partigiano “Arcangelo”, il professor Angelo Rocca (che aveva sposato una ragazza di Casalbuttano), del giornale della Divisione, il “Grido del popolo”, distribuito nelle valli ma anche a Piacenza e nei paesi di pianura, e dei volantini di propaganga. Il giornale si stampava a Bobbio, la redazione fu per un certo tempo nella splendida Rocca d'Olgisio, contesa tra partigiani e tedeschi. Qui per un breve periodo le vicende di Elia e di mio padre si incrociano ancora più strettamente, perchè nel frattempo Elia, il cugino Giovanni ed altri castelleonesi erano stati distaccati a Monteventano, sotto il comando di Lino Vescovi, soprannominato “il Valoroso”per il grande coraggio nelle azioni militari (ucciso dai tedeschi pochi giorni prima della fine della guerra). Il “Valoroso”, comandante del Distaccamento autonomo “Punta d'acciaio”, fu impegnato spesso anche nella difesa di Rocca d'Olgisio, ove, come dicevamo, la Redazione, che alla fine venne sistemata a Pecorara (dove furono sepolte le macchine da scrivere), per un certo tempo risiedette. La Rocca d'Olgisio, oggi monumento nazionale, è un imponente complesso fortificato posto su una rupe scoscesa a cavallo fra la val Tidone e la val Chiarone ma collegata attraverso strade secondarie alle valli Luretta e Trebbia. Posizione strategica, da cui si dominavano le valli piacentine e la pianura del Po verso la Lombardia, era a difesa del Comando della Divisione. Da lì partivano le spedizioni del Valoroso e del Ballonaio ( al secolo Giovanni Lazzetti, chiamato così perchè da ragazzo seguiva il padre nelle fiere di paese). I nazifascisti riuscirono ad occupare la Rocca solo in occasione del terribile rastrellamento dell' inverno '44, ma già il 30 luglio 1944, dopo un fallito assalto, erano stati protagonisti di una feroce strage in quel di Strà: avevano falcidiato nove civili (oltre a donne e ed anziani anche un bimbo di due anni!). La Redazione del giornale era direttamente collegata al Comando (infatti i redattori risultano, nei documenti ufficiali, assegnati al Comando di Divisione). Mio padre raccontava un episodio curioso e significativo. Un giorno il prof. Rocca disse al “Valoroso” che la Redazione del giornale operava in condizioni precarie, senza sedie né scrivanie. Pochi giorni dopo arrivarono alcuni partigiani con un camioncino e scaricarono tavoli e poltrone, ricoperte di stoffa rossa, con frangette e fiocchi sulle spalliere. Il “Valoroso” disse che provenivano dalla Curia di Piacenza! Nel cassetto di una scrivania trovarono un Vangelo ed una edizione in formato tascabile su carta sottilissima della Divina Commedia. Mio padre non seppe mai dirmi se quel mobilio fosse un dono o il frutto di un sequestro! Fatto sta che da allora la Redazione del giornale partigiano era arredata come l' ufficio di un Vescovo!

La vita in montagna era dura, ma il peggio doveva ancora venire: il rastrellamento dei “mongoli” (che poi, come abbiamo visto, mongoli non erano). A novembre e poi ancora ai primi di dicembre del 1944, reparti dell'esercito tedesco, con l'aiuto di squadre fasciste, iniziarono un rastrellamento sistematico della zona, partendo da Pianello su su fino alle cime più alte. Incutevano paura ai partigiani ed alla popolazione soprattutto, attraverso l'uso sistematico della violenza.

I “mongoli”, a volte obbligati a volte volontari arruolatisi nella Wermacht per odio antirusso e per desiderio di vendetta e di bottino, erano quasi sempre ubriachi e si rivelarono oltremodo violenti in tutti i contesti in cui vennero impiegati. La manovra a tenaglia riuscì. Quando cedette il baluardo della Rocca di Pianello, dove i partigiani avevano installato delle mitragliatrici, la situazione fu chiara a tutti e venne dato l'ordine di ritirarsi, individualmente o a piccoli gruppi; i più presero la direzione che sembrava maggiormente libera, verso La Spezia. Due partigiani castelleonesi, Mario Vanoli ed Elder Colbacchi, vennero seriamente feriti e riuscirono a stento a sopravvivere. Mio padre si aggregò ad un gruppetto guidato dal tenente “Bologna”, al secolo Giovanni Menzani, comandante della 10.a Brigata. Insieme giunsero all'altezza del monte S. Franca, poi si separarono. Mio padre, che aveva la febbre e stava male (per un' influenza, la stanchezza o la tensione, non so) decise di provare a tornare a casa.

Ma facciamo un passo indietro. Al “Distaccamento Castelleone” intanto era stato affidato un compito importante: difendere le vie di comunicazione provenienti da Agazzano (sud-est) e da pianello Valtidone (nord-ovest). Si attestarono prima al monte Seno, vicino a Monguzzo ed a Groppo (ove funzionava un piccolo aspedale da campo diretto dal piacentino dott. Ricci Oddi, mentre altri presidi ospedalieri della zona erano diretti dal medico cremasco Ugo Chiappa, rifugiatosi a Pecorara con la moglie). Quando poi il controllo partigiano si estese, praticamente fino alla via Emilia, continuamente contesa, il gruppo castelleonese, ingrossato da altri elementi, si attestò sul monte Pavarano, nei pressi di Vidiano Soprano, dove era parroco don Luigi Carini, divenuto ben presto il Cappellano della Divisione. C'è da dire che quasi tutti i sacerdoti della zona, come pure la gran parte della popolazione, sostenevano i partigiani: questi ultimi senza gli aiuti di cibo, vestiti, protezione della gente del posto mai avrebbero potuto resistere alle difficili condizioni della montagna. Tra don Luigi Carini ed i castelleonesi si instaurò un rapporto di particolare amicizia, che proseguì a lungo dopo la guerra, grazie soprattutto ad Ernesto Stellari. Si pensi che don Carini, morto a 62 anni e sepolto il 24 gennaio 1977, morente in un letto dell'Ospedale di Piacenza chiese alle due sorelle che lo assistevano di voler vedere i suoi amici di Castelleone. Il Sindaco di Castelleone allora era proprio Ruggeri, che avvisò tutti e si recò a raccogliere le ultime volontà del caro amico. Per tornare alle vicende del “Distaccamento Castelleone” dobbiamo dire che nei mesi che vanno fino a novembre del 1944 fu protagonista di diverse azioni importanti: recuperare la salma di un giovane sacerdote fucilato dai fascisti; “punire”i gruppi fascisti responsabili di aver incendiato casolari e fatto violenza agli abitanti, sospettati di aver dato ospitalità a renitenti alla leva; recuperare alimenti nei Consorzi Agrari (formaggi e grano), nelle fabbriche (soprattutto zuccherifici) ed anche da privati, quasi sempre col consenso degli interessati.

Come dicevamo, la guerriglia partigiana si era molto irrobustita ed era arrivata a controllare un vastissimo tratto dell' Appennino. Con la ritirata verso nord del fronte contro gli Alleati, i tedeschi non potevano più permettersi di avere alle spalle un nemico tanto pericoloso da insidiare anche i trasporti sulla via Emilia! E così i tedeschi, con l'aiuto dei fascisti italiani, lanciarono il rastrellamento di cui abbiamo parlato.

Elia allora si trovava, con gli altri, sulle alture attorno a Piozzano, sopra la strada che veniva da Agazzano. Nonostante il loro impegno non fu possibile fermare i tedeschi. I partigiani si portarono ad Orino, sopra Bobbio, e poi indietro, a Monteventano, dove il Valoroso li lasciò liberi di fare la scelta che preferivano. Alcuni rimasero, si dispersero sui monti, fidando nell'inverno che rendeva inaccessibili certe località. Altri tentarono di raggiungere i rispettivi paesi di pianura. Mio padre riuscì a raggiungere avventurosamente Castelleone, ma qui, per la delazione di un vicino, venne catturato, con altri giovani, e portato in campo di concentramento, dove visse il periodo peggiore della sua vita. Ma questa è un'altra storia!

Elia pure, con il cugino Giovanni, prese la via di casa. Riuscirono a passare il Po con l'aiuto di operai della “Todt” (italiani obbligati a lavorare per i tedeschi), che tornavano a casa dopo una giornata di lavoro passata a ripristinare qualche strada o ferrovia. Giunsero a Castelleone. Elia venne ospitato dapprima nella casa di don Giacomo Grazioli, curato dell'Oratorio “Cortazza”, ed a notte fonda si recò dai suoi genitori. Era il 13 novembre, festa di S. Omobono. Rimase nascosto in casa fino all' Immacolata, quando venne avvisato dal pittore Enrico Felisari (che secondo Elia faceva il doppio gioco a danno dei fascisti) di una prossima perquisizione. Fuggì nei campi e per tutto il resto dell'inverno riuscì a sopravvivere fra la dimora paterna ed i casolari della campagna. Divenuta troppo rischiosa anche quella latitanza, il giorno di San Giuseppe del 1945 il papà lo accompagnò a Milano, di notte, nascosto in un carro che portava della legna. Munito di una carta di identità falsa (figurava come Gianfranco Nicolini, nato il 3 luglio 1938), prese il treno per Varese, ove risiedevano dei parenti. Lì stette fino alla Liberazione, partecipando ai movimenti insurrezionali di quella città. I suoi parenti, infatti, facevano parte della Resistnza. Un suo cugino, Walter Marcobi, partigiano comunista, era stato fucilato dai fascisti (dopo la Liberazione, una via del centro cittadino gli venne dedicata). Elia tornò a Castelleone dopo il 25 aprile, con un lasciapassare del CLN di Varese, timbrato dalla Federazione del PCI varesino! Intanto, suo cugino Giovanni, compagno dell'avventura in montagna, rimasto a Castelleone e divenuto uno dei capi dei partigiani castelleonesi, ebbe l'onore, il giorno della Liberazione, di entrare per primo nella Casa del Fascio e ricevere la resa dei fascisti. Da allora la vita per il giovane Elia cambiò: il lavoro, il matrimonio, i figli, la politica... Divenne l'uomo che molti conobbero e stimarono. Ma ciò che divenne, come per tutti del resto, fu in gran parte determinato da ciò che era stato. Le vicende che sinteticamente ho narrato, le radici culturali e politiche, l'impegno civile e sociale, gli furono sempre ben presenti in ogni periodo della sua vita.



                                                                                                    Gian Carlo Corada